La figlia di Iorio

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Centro Nazionale Studi Dannunziani

Atti del VII Convegno, 24-26 ottobre 1985 - seconda edizione

Presentazione di  Edoardo Tiboni

Sollecitati da più parti, abbiamo deciso di provvedere alla nuova edizione degli Atti del Convegno sulla Figlia di Jorio che tenemmo dal 24 al 26 ottobre del 1985.
Evidentemente l'importanza dei contributi di quel Convegno ne hanno reso gli Atti tanto richiesti da determinare l'esaurimento dei volumi della prima edizione. Ne siamo lieti e ne traiamo conforto per il nostro impegno futuro.

• Premessa di Ettore Paratore •

La Figlia di Jorio costituisce, nella produzione drammatica dannunziana, l'unico indiscutibile successo, un raro momento di felicità. Persino Ernesto Buonaiuti, lo zio di mia moglie, che certo doveva provar disgusto per le predominanti caratteristiche dell'arte del Pescarese, mi confidava il suo entusiasmo per questa tragedia, che gli sembrava scritta in trance, in un momento di raro, eccezionale empito creativo. A voler investigare le ragioni della fortuna che ha accompagnato la tragedia, si finisce per individuare due motivi apprezzabili per rendersi conto del fenomeno: da un lato quel senso di primitivismo, di arcaismo, di naïf che si esprime soprattutto attraverso il linguaggio, sottilmente distillato sulle orme dei primi scrittori della nostra letteratura; dall'altro sconvolgente drammaticità che contraddistingue i finali di tutte e tre gli atti e che fa sostanzialmente della pièce un dramma veristico. Lo choc che provoca nello spettatore la veemenza degli effetti teatrali è la vera ragione del favore con cui la tragedia è stata sempre accolta; ma sin dall'inizio la critica si è soffermata piuttosto su ciò che è dichiarato nella dedica della tragedia:

ALLA TERRA D'ABRUZZI
ALLA MIA MADRE ALLE MIE SORELLE
AL MIO FRATELLO ESULE AL MIO PADRE SEPOLTO
A TUTTI I MIEI MORTI  A TUTTA LA MIA GENTE
FRA LA MONTAGNA E IL MARE
QUESTO CANTO
DELL'ANTICO SANGUE
CONSACRO.

cioè sullo sfondo folclorico ampiamente lumeggiato soprattutto riguardo alle tradizioni religiose. Molti studiosi si sono dedicati a registrare il moltissimo che il D'Annunzio ha tratto dagli indagatori del folklore abruzzese, specie il De Nino e il Finamore, e che in questo Convegno sarà certamente valutato dalla Molinari, dal Giannangeli e da Aldo Rossi1. Si è acclarato che parecchie battute, specie del rituale nuziale del primo atto e di quello funebre del terzo, sono una versione di canti popolari raccolti dai folcloristi già nominati. Ma non s'è potuto far a meno di concludere che, con tutto l'apparentemente mistico fervore con cui il D'Annunzio ha ripreso le suggestioni locali, l'analisi dei riti tradizionali finisce per far grandeggiare il carattere brutalmente superstizioso che li concerne, non modifica di una spanna l'orrido che aveva già ispirato l'autore sia nelle Novelle della Pescara, sia nel Trionfo della morte, per tutto ciò che costituiva richiamo alle tradizioni religiose della terra natia: lo svolgimento interrotto del rito nuziale nel primo atto può essere accettato in chiave di amorevole ricerca, ma le reazioni delle donne portatrici di doni al momento dell'ingresso di Mila contrastano con lo slancio autenticamente cristiano che ha spinto Ornella a proteggere la fuggiasca; così l'insieme del rituale espiatorio del delitto di Aligi manifesta una cupa, barbarica ferocia e primitività che tolgono ogni possibilità di commossa rievocazione di antiche usanze. E al riguardo debbo osservare che la pena inflitta al parricida non è solo un relitto della tradizione abruzzese, ma – come ci descrive Cicerone nella Pro Roscio Amerino – apparteneva anche al più antico codice romano per un reato del genere. Appare quindi un singolare, quasi contraddittorio ritrovato quello di foggiare un linguaggio primitivo desunto da Jacopone, Cavalca, Passavanti e simili per situare, in accordo con l'atemporale "or è molt'anni" che è premesso al testo della tragedia, l'evento drammatico nel clima della nostra più antica letteratura religiosa. Questo gusto di un arcaico naïf commovente fa a pugni con la prospettiva cupamente elementare desumibile da quel mondo barbaricamente superstizioso. E l'intento squisitamente letterario con cui è stata condotta la ricerca di una temperie espressiva arcaica si palesa anche nel fatto che è lasciato da parte il dialetto abruzzese, testo originario dei canti folclorici introdotti nella tragedia, e al suo posto è adoperato il toscano antico. Su tutto ciò è notevole uno studio recente, D'Annunzio naïf: primitivismo e arcaismo nella "Figlia di Jorio", pubblicato da Lynn M. Gunzberg in Lettere italiane, 1984, p. 545 sgg. L'autore cita qualche inflessione, come p.es. pitonta, venardì; ma il più delle volte la parola dialettale è sostituita da una forma del toscano dugentesco e trecentesco. Tralascio dal distinguere i passi, in cui l'eloquio serba una forma cruschevole, ma pur sempre consona al linguaggio abituale, da quelli frequentissimi in cui s'insinua un termine arcaico attinto a bella posta ai prosatori o poeti dei nostri primi secoli; noto fra l'altro che nella violenta apostrofe indirizzata nel secondo atto da Lazaro di Roio ad Aligi il ripetuto be' è una trasposizione dì quello che avrebbe dovuto essere l'abruzzese mbe'; e si ricordi fedire sostituito all'abruzzese ferire.
Ad ogni modo la coloritura toscana trecentesca che prevale nella compagine linguistica, se può sedurre un lettore più ingenuo, finisce per essere una fastidiosa sovrapposizione di intellettualistico preziosismo. Essa fu probabilmente nata per spargere un colore di sacralità sopra una trama drammatica di più ferma violenza. Come ho già sottolineato nei miei Studi dannunziani2 sin dall'inizio dà l'impressione d'essere anche lui un reiner Tor, un "puro"; e nel secondo atto la scena in cui egli e Mila s'obliano fino a baciarsi e subito sussultano come contaminati è evidentemente ispirata a quella del secondo atto del Parsifal in cui il protagonista riceve il bacio di Kundry e subito s'inalbera inorridito, perché reso veggente dall'atto sensuale.
Ma se in Wagner, Kundry tenta di sedurre Parsifal per obbedire al volere del mago Klingsor, in D'Annunzio Mila arde d'amore per Aligi. Come ho chiarito nel mio contributo La religiosità nella "Figlia di Jorio"3, la tradizione religiosa nella tragedia è vista solo come continuità ferrea di una superstizione primitiva, come confermano nel secondo atto anche le parole di Cosma il santo:

Prima che tu prenda
la via nova, considera la legge.
Chi perverte la via, sarà fiaccato.
Guarda il comandamento di tuo padre.
Segui l'insegnamento di tua madre.
Tienli sempre legati in sul tuo cuore.
E Dio guidi il tuo piè, che non sia preso
nei lacci e non incappi nella brace.

L'essenza del dramma è nella passione che erompe in Aligi e Mila e che determina il suo svolgimento, così come nella Fiaccola sotto il moggio il carattere di dramma verista, al disopra della figura e dell'eloquio folclorici del serparo, è nell'orrenda colpevolezza di Tibaldo e nel colpo di scena con cui questi anticipa l'assassinio di Angizia tramato da Gigliola, che per giunta muore avvelenata. I tocchi più belli, che custodiscono la poesia della tragedia, sono tutti contenuti in battute che seguono il percorso di quello sventurato amore. L'umanità erompe nel primo atto dal grido di Mila:

E come pascerai tu la tua mandra
se la tua mano ti s'inferma, Aligi?

È la molla che suscita l'amore nel pastore, com'egli stesso dichiara nel secondo atto:

E con questa parola ella mi colse
l'anima mia di dentro le mie ossa
così come tu, vecchia, cogli un semplice!,

e come liricamente chiarisce l'episodio dell'angelo muto. E il duetto che gl'innamorati cantano nella grotta s'infiora di battute d'un'accesa liricità:

Pei monti coglierai le genzianelle
e per le spiagge le stelle marine.
....................................................
Ma lascia, anche per questa
notte, ch'io viva dove tu respiri,
ch'io t'ascolti dormire anche una volta,
che anch'io vegli per te come i tuoi cani!

La castità che i due innamorati conservano ha certo un'origine religiosa, ma è forse l'unico elemento, oltre la pietà di Ornella, che, appunto per la sua radice passionale, attinge a una religiosità superiore nella sua purezza. E il dettato s'eleva alla poesia tutte le volte che l'amore lo ispira: si pensi al monologo di Mila nel secondo atto quand'essa prega la Vergine perché la lámpana sta per spegnersi e rammenta la vita tormentosa ch'essa ha dovuto subire, si pensi al suo sublime sacrificio nel terzo atto, magniloquente conclusione di quella storia disperata, al suo grido lacerante quando Aligi, reso smemorato dalla tazza del consolo, la maledice:

(Aligi, Aligi, tu no,
tu non puoi, tu non devi!).

Sì pensi alle parole che Ornella rivolge alla martire che si avvia al rogo:

Mila, Mila, sorella in Gesù,
io ti bacio i tuoi piedi che vanno!
Il Paradiso è per te!

Qui finalmente Ornella, l'unico personaggio veramente cristiano del dramma, fa riemergere la religiosità consapevole. Ma ciò è sempre cagionato dallo scoppio di quell'amore accecante, ch'è la forza della tragedia e il filo rosso che la sorregge e la solleva.
In conclusione i due motivi fondamentali, il cerebrale primitivismo espressivo e la veemenza degli effetti teatrali, obbediscono ciascuno ad una delle componenti dell'arte dannunziana, il primo al decadentismo, il secondo al mai intermesso naturalismo. Ma il naïf ricercato del primitivismo degenera in fosca superstizione, delineando un mondo chiuso nei suoi ferrei rituali mortificanti; e che quel mondo sia cupamente impermeabile a tocchi di umanità lo conferma la brutale parte di Lazaro di Roio nel secondo atto. Invece la veristica violenza delle scene madri (si pensi che l'uccisione di Lazaro da parte di Aligi accade sulla scena) ospita battute di raccolto e struggente lirismo che assicurano i migliori risultati poetici della tragedia.

NOTE

1. Un accertamento ci è già stato offerto dallo studio di P. TOSCHI, Le tradizioni popolari nell'opera di Gabriele D'Annunzio, in Atti del Convegno 1963, Milano 1968, p. 575 sgg., e da quello di M. POMILIO, D'Annunzio e l'Abruzzo, ibid., p. 597 sgg.
2. Napoli, 1966, p. 291.
3. In "Quaderni del Vittoriale", luglio-agosto 1981, p. 83 sgg.

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